Esplicito
La salute è un bene globale: in tempi di Coronavirus è bene riflettere sulle insane polemiche NoVax.
21 APR 2020 · In tempi di Coronavirus è bene fare alcune riflessioni sulle precedenti e insane polemiche dei NoVax.
Ecco perchè sono indispensabili le vaccinazioni.
Un argomento che dev'essere sempre all'ordine del giorno, visti i tempi che corrono...
"La salute è un bene comune globale".
da IlSole24Ore.
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22 MAR 2020 · "Lezioni di storia delle infezioni e salti di specie".
Alcune informazioni utili per superare il difficile periodo che stiamo vivendo. "Lezioni di storia delle infezioni e salti di specie": il raffredore dai cavalli, la varicella dai polli, il Fuoco di S. Antonio dai volatili, l'influenza dai maiali , il morbillo vaiolo e tubercolosi dai bovini, fino alla peste da marmotte e topi tramite le pulci:
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3 NOV 2019 · La libertà al tempo dell’Intelligenza Artificiale.
da Micromega- di Nicolò Bellanca.
Articolo letto dalla sintesi vocale VOCEVIVA.
Ha ancora senso, nell’epoca delle macchine intelligenti e dell’analisi biochimica dei nostri processi decisionali, trarre ispirazione, nelle nostre azioni etiche e politiche, dall’idea della libertà umana? Sì, ma occorre riformularla per confrontarsi con la soggettività “aumentata” dall’Intelligenza Artificiale . Una critica al fatalismo come nuovo atteggiamento ideologico dominante.
Ha ancora senso trarre ispirazione, nelle nostre azioni etiche e politiche, dall’idea della libertà umana? Ha ancora senso, nell’epoca delle macchine intelligenti e dell’analisi biochimica dei nostri processi decisionali? Iniziamo evocando alcune semplici definizioni e alcuni punti del dibattito in corso di svolgimento. L’Intelligenza Artificiale, (I,A), esiste quando una macchina si comporta in modi che chiameremmo intelligenti se a comportarsi così fosse un essere umano. Su uno degli aspetti più importanti dell’intelligenza umana, la capacità di apprendere, i computer si stanno rivelando, negli ultimi anni, altrettanto validi, o migliori, di noi in compiti come il riconoscimento vocale, la traduzione linguistica o l’identificazione delle malattie dalle analisi radiografiche.
Queste formidabili prestazioni sono consentite dall’affermarsi del machine learning. A lungo i computer sono stati programmati unicamente mediante algoritmi: sequenze di istruzioni che indicano come risolvere un problema. Tuttavia, per molti dei problemi che contano nella vita, camminare, nuotare, andare in bicicletta, riconoscere un viso o capire una parola detta o scritta, non siamo in grado di scrivere un preciso algoritmo. L’Intelligenza Artificiale sta superando questa difficoltà mediante un approccio basato su esempi. Esaminando molti casi di risposta ad una certa classe di problemi, il computer procede ad una generalizzazione che gli permette di affrontare anche situazioni parzialmente nuove e differenti: esso impara ad imparare sotto la supervisione di un umano, effettuando una fase di “allenamento” al termine della quale manifesta intelligenza, intesa come capacità di realizzare fini complessi, ovvero di risolvere problemi. Quest’anno, ad esempio, il programma informatico Pluribus ha battuto a Texas hold’em, una delle specialità più diffuse del poker, cinque giocatori professionisti. Gli aspetti più notevoli sono stati che il programma si è allenato giocando contro sé stesso, partendo da zero, ossia senza analizzare partite già giocate; e che a poker non sappiamo quali carte hanno in mano gli avversari e non c’è un solo vincitore, ossia si tratta di un gioco più vicino degli scacchi (nel quale conosciamo la disposizione dei pezzi sulla scacchiera e, alla fine, vi è un solo vincitore) al mondo reale...
Esplicito
19 APR 2019 · Cosa pensano gli italiani in un sondaggio di SWG, realizzato per Legacoop.;;;18/04/2019.
Torna il bisogno di lavoro stabile, continua a soffrire il mondo delle attività in proprio. Nonostante la consapevolezza del lavoro che cambia, della necessità di flessibilità e dell'impatto che avranno le nuove tecnologie, "nel corso degli ultimi anni, insieme ai processi di flessibilità, è cresciuto anche il bisogno di un lavoro stabile (67% nel 2019 contro il 61% del 2015), mentre è in calo la propensione ad aprire una propria attività (19% nel 2019 contro il 23% del 2015)". A dirlo è un sondaggio che SWG, ha presentato ieri, in esclusiva per Legacoop in occasione del 40° Congresso nazionale.
"La crisi economica e la flessibilizzazione contrattuale hanno gemmato un significativo mutamento di paradigma negli ultimi anni: il ritorno del valore del lavoro. Il lavoro non è solo stipendio (lo è per il 22% delle persone), ma, per la maggioranza del Paese, significa stabilità (17%), possibilità di conciliare la vita personale con quella occupazionale (15%), opportunità per esprimere le proprie competenze (25%), percorso per formarsi, fare carriera e fare esperienze differenti (18%)", dice la ricerca. In ossequio alle fondamenta della nostra Costituzione, inoltre, la stragrande maggioranza degli italiani (91%) dice che una società è realmente giusta solo se ci sono uguali opportunità di partenza sul lavoro.
"Il tema del lavoro, sottolinea Mauro Lusetti, Presidente di Legacoop, è la sfida del domani, anche in ragione della quarta rivoluzione industriale. Una sfida che non si gioca solo sulla stabilità, ma anche sul vasto terreno dell'equità e delle opportunità che l'autoimprenditorialità può generare se fondata su principi di condivisione, rispetto delle persone, valorizzazione delle competenze e stabilizzazione esistenziale. Per questo, conclude Lusetti, siamo convinti che l'esperienza realizzata dalle cooperative sia utile per aiutare le persone ad affrontarla".
La sfida di domani è fatta anche e soprattutto di tematiche quali digitale e intelligenza artificiale: argomenti che suscitano, nelle persone, emozioni positive quali fiducia (47%), sorpresa (39%), attesa (33%), dice una seconda parte del sondaggio di SWG. I timori coinvolgono, principalmente, i dati personali. Non si tratta solo del tema della privacy, ma della ben più complessa apprensione legata alla paura di vedersi sottratto qualcosa di sé, un pezzo della propria storia o identità. "Nonostante il buon rapporto con le trasformazioni tecnologiche, gli italiani temono gli effetti negativi della quarta rivoluzione industriale. Hanno paura che essa si trasformi in macelleria sociale,
portando alla scomparsa dei lavori a bassa qualificazione (62%), allo strapotere delle multinazionali (61%) e alla concentrazione del potere sempre in mano di poche persone (58%)", dice il rapporto.
Le persone s'immaginano una società futura in cui peggiorerà la qualità della vita e del lavoro; in cui ci saranno persone sempre meno ricche; in cui la libertà degli individui sarà limitata e si avranno meno opportunità e meno ricchezza derivante dal lavoro.
Esplicito
25 GEN 2019 · La voucherizzazione del lavoro.
I cosiddetti lavoretti sono dunque lavori subordinati, anzi con un livello di controllo ed eterodirezione a tratti persino superiore rispetto a quello relativo ai tradizionali rapporti di lavoro. Se si punta a mascherare questo aspetto, è solo per poter trarre vantaggio da una situazione nella quale si sottraggono diritti a soggetti che invece dovrebbero beneficiarne per bilanciare la loro situazione di cronica e strutturale debolezza sociale.
Si badi che al meccanismo descritto contribuiscono in modo determinante i clienti, chiamati a valutare il fattorino e con ciò a contribuire al mantenimento di un sistema di direzione e controllo dei lavoratori davvero penetrante. E magari fonte di discriminazioni, come avviene nel caso in cui le valutazioni, eventualmente fornite in forma anonima, si fondino su pregiudizi o facciano comunque leva su tratti identitari in qualche modo stigmatizzati dal cliente, e non sulla sola qualità e affidabilità del servizio. Per non dire delle situazioni in cui la valutazione negativa sia riconducibile a una percezione distorta di come si è svolto il servizio, o peggio alla volontà di calunniare o danneggiare il lavoratore.
L’economia on demand si fonda su un ampio ricorso ai sistemi reputazionali, e in particolare su forme di rating e feed back, motivo per cui non stiamo qui discutendo di un fenomeno marginale. Siamo cioè di fronte a pratiche costitutive del capitalismo delle piattaforme nella misura in cui concorrono in modo determinante all’edificazione di un ordine economico entro cui minimizzare sino ad azzerare la presenza della politica e dunque del diritto. Non solo il sistema di tutela dei lavoratori è disinnescato dal mascheramento del rapporto di subordinazione: lo stesso vale per la tutela del consumatore, rimpiazzata dal controllo reputazionale e dal relativo sistema di sanzioni sociali, e con ciò sottratta all’azione delle corti e delle autorità amministrative, a cui si impedisce così di interessarsi del funzionamento del mercato.
Insomma, l’economia on demand alimenta in modo decisivo ciò che abbiamo descritto in termini di riduzione della relazione di lavoro a una relazione di mercato qualsiasi. Sostiene insomma quanto si potrebbe chiamare la voucherizzazione di quella relazione: che si vuole tendenzialmente relativa al mero scambio di denaro contro prestazione manuale o intellettuale. Senza che questo scambio faccia sorgere obbligazioni accessorie di alcun tipo, o che sia comunque completata da previsioni concernenti il contenuto dell’accordo o il modo di instaurarlo e scioglierlo.
Eppure ci sarebbe una figura contrattuale utilizzabile per preservare da un lato il carattere della subordinazione e valorizzare dall’altro l’eterogeneità del fenomeno dei cosiddetti lavoretti, e in particolare le richieste di flessibilità temporale a vantaggio del datore di lavoro e persino del lavoratore: almeno di quelli interessati a entrare in una relazione in cui sia data la possibilità di scegliere davvero liberamente se, quando e quanto lavorare. Si potrebbe cioè ricorrere al contratto di lavoro intermittente, introdotto al principio degli anni Duemila, definito come “il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno”. Il tutto senza garanzia di un impiego orario del lavoratore, fatta salva la possibilità di stabilire un obbligo di disponibilità per il quale il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una indennità pari a una percentuale della retribuzione prevista. L’obbligo in discorso potrebbe però non essere previsto, il che mette in crisi un fondamento della decisione del Tribunale di Torino sui rider Foodora. Lì non si è ammessa la fattispecie della subordinazione in quanto essi “avevano la piena libertà di dare o meno la propria disponibilità”, ma come abbiamo appena visto ciò non comporta necessariamente l’inquadramento come lavoratore autonomo...
Esplicito
25 GEN 2019 · di Alessandro Somma - da Micromega.
Dalla catena di montaggio all’economia dei lavoretti.
Alcuni anni or sono l’Economist, noto settimanale nato nella seconda metà dell’Ottocento per promuovere l’ideologia del libero mercato, ha dedicato l’articolo di copertina alla cosiddetta economia on demand, celebrandola come una sorta di completamento della rivoluzione iniziata al principio del Novecento con l’introduzione della catena di montaggio. Quest’ultima, utilizzata per la prima volta nella produzione di autoveicoli da Henry Ford, avevo reso accessibile a un largo pubblico un bene fino ad allora considerato di lusso e dunque precluso ai più. Allo stesso modo un numero di imprese innovative in crescita esponenziale sta trasformando le abitudini di consumo con riferimento a una vasta gamma di servizi un tempo esclusivi: è il caso del noleggio con autista fornito da Uber, della pulizia della casa realizzata attraverso Handy, della fornitura di pasti a domicilio recapitati da SpoonRocket, o della consegna della spesa assicurata da Instacart. Conclusione: “a San Francisco una giovane programmatrice di computer può già vivere come una principessa”.
Le imprese protagoniste di questa rivoluzione, chiarisce l’articolo dell’Economist, possono fornire servizi a basso costo sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche. Esse infatti “uniscono potere dei computer e lavoro freelance”, riuscendo così a “suddividere compiti complessi nelle loro singole componenti e a subappaltarle a specialisti in giro per il mondo”. Il tutto contribuendo a ridisegnare la geografia politica dell’umanità, finalmente non più divisa, come inteso da Karl Marx, tra i ricchi proprietari dei mezzi di produzione e i poveri che lavorano per loro. Rileva ora una distinzione apparentemente interclassista, o comunque funzionale a disinnescare il conflitto redistributivo cui rinviano le contrapposizioni fondate sulla ricchezza: quella tra “persone che hanno soldi ma non tempo e persone che hanno tempo ma non anche soldi”, ovvero i gruppi che l’economia on demand riesce a mettere in comunicazione...
Esplicito
11 NOV 2018 · L’alienazione, sebbene mascherata, è presente più che mai anche nelle nuove forme di lavoro. Secondo Lelio Demichelis, il compito della sociologia e dell’economia oggi è costruire uno scenario alternativo, umanistico ed ecologicamente responsabile.
L’alienazione, questa sconosciuta.
Non se ne parla più, come se fosse magicamente scomparsa dalla scena. Come se le retoriche neoliberali dell’essere imprenditori di se stessi e di vivere la propria vita come un’impresa in competizione con gli altri, unitamente alle retoriche del condividere, del fare community, dei social, dello smart-working e dello smart-job, dello smart-phone e delle smart-cities e, prima ancora, dell’economia della conoscenza e del capitalismo intellettuale (sic!), avessero davvero cancellato quella ‘cosa’, l’alienazione appunto che per un secolo e mezzo aveva invece caratterizzato pesantemente e drammaticamente le forme e le norme capitalistiche di produzione e di organizzazione del lavoro. L’alienazione, la sua riconoscibilità e il suo contrasto erano, una volta, i fattori-base per la costruzione di quella coscienza di classe senza la quale, diceva Marx, era difficile immaginare una soluzione alternativa al capitalismo, o anche solo a democratizzarlo, come avvenuto nel post-1945.
Oggi, scriveva Luciano Gallino nel 2012, si deve purtroppo constatare che il tema dell’alienazione, fondamentale per cercare di rendere le persone capaci di controllare il lavoro che svolgono, piuttosto che esserne schiave, è scomparso totalmente dal programma di riflessione e dal campo di analisi della sociologia mainstream (sempre più schiacciatasi, aggiungiamo, sulla ricerca quantitativa, divenendo incapace di guardare i processi nell’insieme). Inoltre, diventate frammentarie e socialmente invisibili le classi sociali e scomparsi anche i partiti di riferimento, continuava Gallino, è sparito anche l’interesse per la qualità del lavoro. Ma anche questa perdita di interesse si spiega con le retoriche e le pedagogie per cui proprio la rete permetterebbe invece una migliore qualità del lavoro (è uno storytelling fascinoso ma che nasconde la realtà della nuova subordinazione di tutti alle piattaforme e alla rete come nuova fabbrica-organizzazione scientifica del lavoro), quindi di controllare il proprio lavoro, di gestirlo autonomamente e liberamente (lavori quanto vuoi, quando vuoi).
In realtà, l’alienazione non è scomparsa con le nuove forme di organizzazione del lavoro e del consumo (in verità vecchie perché sempre basate sulla legge ferra del tecno-capitalismo, sempre uguale dalla fabbrica di spilli alle piattaforme, ovvero: suddividere/isolare/individualizzare per poi totalizzare/integrare/connettere), semmai è molto ben mascherata dallo stesso sistema che la produce...
Esplicito
14 FEB 2018 · Da Micromega - di Pierfranco Pellizzetti.
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Comprare qualcosa.
Le cronache riferiscono che qualche giorno dopo la tragedia dell’11 settembre e il crollo delle Torri Gemelle newyorchesi, mamma Barbara Bush chiamò al telefono il presidente degli Stati Uniti, suo figlio George jr., chiedendogli come si potesse contribuire alla reazione patriottica post-attentato e quello le rispose di “compiere il gesto americano per eccellenza: andare in un negozio e comprare qualcosa”. Storiella che contiene, al tempo stesso, tanto un po’ di vero come di falso. Una verità di superficie, smentita dell’effettiva natura profonda di quello stato continentale nato dall’insurrezione delle Tredici Colonie nel fatidico 16 dicembre 1773 e che chiamiamo “rivoluzione americana”. Scoppiata per
una questione di tasse.
In effetti, come ha dettagliatamente illustrato Victoria De Grazia, storica della Columbia University, già agli inizi del Novecento la democrazia degli affari americana aveva teorizzato con il presidente Woodrow Wilson la creazione di un grande emporio mondiale guidato dagli States, che sostituisse con lo scambio delle merci la bellicosità imperiale degli europei: «gli Stati Uniti si consacravano come il primo regime al mondo basato sui consumi di massa».
Un’invenzione, a conferma che il popolo e i suoi orientamenti sono una costruzione sociale; non un dato immutabile, per così dire, “spontaneo”.
Difatti, nel caso americano, siamo in presenza di una sapiente operazione manipolatoria a misura delle esigenze insite nella nascente produzione di massa. Ce lo raccontava anni fa Jeremy Rifkin: «convertire gli americani dalla psicologia della sobrietà a quella della spesa si rivelò un compito assai difficile. L’etica protestante del lavoro, che dominava lo spirito della frontiera americana, aveva radici molto profonde. La parsimonia e il risparmio erano le chiavi di volta dello stile di vita americano, elementi fondamentali della tradizione yankee che aveva avuto una funzione di guida per intere generazioni e costituiva un punto di riferimento per milioni di emigranti che speravano in un futuro migliore. Per la maggioranza degli americani, la virtù del sacrificio di se stessi continuava ad avere il sopravvento sul richiamo dell’immediata gratificazione». Sicché la comunità degli affari si diede il compito di cambiare radicalmente la psicologia che aveva costruito la nazione, con l’obiettivo di
trasformarne la popolazione da investitori nel futuro in consumatori nel presente. E lo strumentario per realizzare l’operazione fu molteplice quanto ingegnoso: dall’invenzione del marketing alle vendite rateali. Ma ci volle quasi un secolo per raggiungere definitivamente l’obbiettivo atteso: la tossicodipendenza consumistica collettiva di vivere al di sopra dei propri mezzi, grazie a quella bolla drogata di denaro in prestito che esploderà periodicamente; come si è visto per l’ennesima volta nell’ultima grande recessione, datata 2008-2011. Nel frattempo le distanze sociali si allungavano, nel corso di quella che Thomas Piketty definisce «la rivoluzione conservatrice anglosassone degli anni
settanta-ottanta».
Il peccato originale stelle-e-strisce...
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Esplicito
21 GEN 2018 · Il Ministero della Verità.
di Marco Travaglio | 18 gennaio 2018.
L’invito è ufficiale, anzi ufficialissimo: “Domani 18 gennaio alle ore 17.00, presso il Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche (CNAIPIC) al Polo Tuscolano in Via Tuscolana 1548, alla presenza del Ministro dell’Interno Marco Minniti e del Capo della Polizia Franco Gabrielli, verrà presentato il nuovo servizio di segnalazione istantanea contro le fake news. Ti aspettiamo”. Quel “ti aspettiamo” ha un che di vagamente inquietante, tipo quando ballavo in discoteca con una tipa che mi piaceva e un coetaneo più robusto di me (ci voleva poco) mi diceva “ti aspetto fuori”.
In effetti l’idea che a decidere quali news sono fake, cioè false, siano il Viminale e la Polizia di Franco Gabrielli detto Nazareno, cioè il governo, allarma un po’. Riporta alla mente il ministero della Verità di George Orwell in 1984, che fra l’altro spacciava fake news a tutto spiano, le più pericolose e imperiture perché consacrate dal timbro dell’ufficialità, dall’ipse dixit dell’autorità. Il ministero aveva sede in una mega-piramide bianca che recava sulla facciata gli slogan “La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù” e “L’ignoranza è forza”. E aveva il compito di riscrivere secondo i dettami e la “neolingua” della propaganda governativa tutto ciò che la contraddiceva: romanzi, cronache, statistiche, libri di storia.
È anche il sogno del nostro pericolante e tremebondo regimetto, in vista delle elezioni che potrebbero spazzarlo via dalla faccia della terra. Dunque che faranno le nostre forze dell’ordine? Disperderanno le fake news, o presunte tali, con gli idranti? Le calpesteranno con plotoni di carabinieri a cavallo? Caricheranno gli autori con agenti in tenuta antisommossa armati di manganello? Niente paura. Siamo in Italia, dove ogni dramma diventa melodramma e ogni tragedia si muta in farsa. Infatti la mirabolante guerra alle fake news sarà affidata a una decina di appuntati chiusi in un commissariato. I quali, nei ritagli di tempo fra una denuncia di furto, una di documenti smarriti e una di gattini scomparsi, raccoglieranno le segnalazioni dai privati che si sentiranno offesi dal tal sito, blog, social network; dopodiché dovranno rivolgersi al server per convincerlo a cancellare tutto e, se quello opporrà resistenza, chiameranno un pm perché indaghi sull’eventuale contenuto diffamatorio del messaggio incriminato ed eventualmente sequestri il corpo del reato (la fake news) o l’arma del delitto (il sito o la pagina facebook, twitter, instagram ecc.). Già, perché è dato per scontato che le fake news siano un’esclusiva della Rete.
Invece i tg e i giornali sono dei pozzi di scienza e verità, scevri come sono da conflitti d’interessi e da intenti propagandistici. Lo dice il 10 gennaio lo stesso sito della Polizia: “ATTENZIONE!! Fake news. È tempo di campagna elettorale e, come spesso purtroppo accade, assistiamo ad un’impennata nella diffusione di fake news via internet e social network… la ben nota e poco edificante attività di creazione a tavolino, e successiva diffusione, di notizie prive di fondamento, relative a fatti o personaggi di pubblico interesse, al solo scopo di condizionare fraudolentemente l’opinione pubblica. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, ha interessato la Presidente della Camera, Laura Boldrini” e te pareva: “ai suoi danni è circolata su whatsapp la bufala virale secondo cui un ragazzo di 22 anni senza adeguate referenze professionali, presunto nipote della Presidente, sarebbe stato assunto a Palazzo Chigi”. La classica bufala a cui credono poche migliaia di gonzi, mai ripresa da giornali o tg, dunque innocua.
Invece contro le balle dei giornaloni, che di solito si muovono a testuggine, ripresi poi da tutti i tg, nulla è previsto perché per lorsignori il problema non esiste: e ci mancherebbe, visto che giornaloni e tg li controllano loro e spacciano solo le fake news che vogliono loro. La madre di tutte le fake news dell’ultimo quarto di secolo la raccontano gli ex pm Caselli e Lo Forte nel libro La verità sul processo Andreotti (ed. Laterza): la falsa assoluzione, annunciata a reti ed edicole unificate, del sette volte premier, dichiarato colpevole in appello e in Cassazione di associazione per delinquere con Cosa Nostra fino alla primavera del 1980, reato “commesso” ma prescritto poco prima della sentenza. Fecero tutto le tv e i giornaloni. E tutt’oggi milioni di italiani non sanno come finì il processo del secolo, anzi peggio: sono convinti dell’opposto della verità.
C’è poi un altro trascurabile dettaglio: che si fa se le fake news le raccontano direttamente i politici? La polizia irrompe negli studi televisivi per imbavagliarli e ristabilire ipso facto la verità? L’altra sera abbiamo tanto sperato che ciò avvenisse a Matrix, mentre B. sparava le sue cifre mirabolanti sulla flat tax che aumenta il gettito (uahahah), sulla lotta all’evasione (parola di un pregiudicato per frode) e sulla sua prossima abolizione dell’Imu sulle prime case (abolita due anni fa). Se poi la guerra alle fake news fosse retroattiva, non vorremmo essere nei panni di Renzi che, tra un “Enrico stai sereno” e un “Se vince il No lascio la politica”, dovrebbe subire il sequestro della lingua a vita. Infine ci sarebbero le fake news sulle fake news, tipo le balle senza prove sul mandante Putin, per nascondere le vere interferenze straniere nelle elezioni italiane: quelle degli americani e dei governi europei, ma anche della Ue (ultimo esemplare: il commissario Moscovici, lo stesso Nostradamus che nel 2016 vaticinò l’apocalisse “populista” in caso di No al referendum). Ma di questo si occuperà senz’altro la “Task force europea contro le fake news” istituita da Juncker al quarto whisky e composta da 39 “esperti”, fra cui Gianni Riotta. Quindi tranquilli, siamo in buone mani
Esplicito
1 NOV 2017 · La forma del lavoro che verrà con l'avvento dell'intelligenza artificiale.
da Le Scienze. 28 ottobre 2017.
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http://www.voceviva.it/Podcast/VV2017/xLeScienze17_162.mp3
La rivoluzione digitale ha già iniziato a trasformare molte mansioni lavorative, ma è solo l'inizio: l'apprendimento automatico, cioè l'intelligenza artificiale in grado di imparare da sola, promette di sostituire gli esseri umani anche in compiti complessi e non routinari. Le ricerche per capire dove andrà il mercato del lavoro sono molte, e sottolineano opportunità e rischi per i lavoratori di tutto il mondo. di Emily Anthes/Nature.
L'anno scorso, l'imprenditore Sebastian Thrun ha deciso di aumentare le sue capacità di vendita usando l'intelligenza artificiale. Thrun è il fondatore e presidente di Udacity, una società di formazione che offre corsi online e impiega un'armata di venditori per rispondere alle domande dei potenziali studenti via chat. Thrun, che dirige anche un laboratorio di informatica alla Stanford University, in California, ha lavorato con uno dei suoi studenti per raccogliere le trascrizioni di queste chat, segnalando quelle che hanno portato all'iscrizione a un corso.
I due hanno inserito i dati della chat in un sistema di apprendimento automatico, che ha raccolto le risposte più efficaci a una serie di domande più comuni.
Poi hanno messo questo assistente alle vendite digitale a lavorare accanto ai colleghi umani. Quando arrivava una domanda, il programma suggeriva una risposta appropriata, che il venditore poteva personalizzare se necessario. Era come avere un copione per le vendite in grado di reagire istantaneamente, con una montagna di dati per supportare ogni suo elemento. E funzionava; il gruppo è riuscito a gestire il doppio dei contatti nello stesso tempo, e a convertirne in vendite una percentuale più alta.
In pratica, spiega Thrun, il sistema ha messo insieme le competenze dei migliori venditori della società e le ha rese disponibili all'intero gruppo, con un processo che egli ritiene potenzialmente rivoluzionario. "Proprio come la macchina a vapore e l'auto hanno amplificato la nostra potenza muscolare, questo potrebbe amplificare la nostra capacità cerebrale e trasformarci in superumani dal punto di vista intellettuale", afferma.
Il decennio passato ha visto notevoli progressi nelle tecnologie digitali, come l'intelligenza artificiale (IA), la robotica, il cloud computing, l'analisi dati e le comunicazioni mobili.
Nei prossimi decenni queste tecnologie trasformeranno quasi ogni settore, dall'agricoltura alla medicina, dalla produzione alla vendita, dalla finanza ai trasporti, ridefinendo la natura del lavoro. "Milioni di posti di lavoro saranno eliminati, serviranno e saranno creati milioni di nuovi posti di lavoro, e molti di più ancora saranno trasformati", afferma Erik Brynjolfsson, che dirige l'Initiative on the Digital Economy del Massachusetts Institute of Technology.
Ma fare previsioni precise è difficile. "La tecnologia sta progredendo, il che in qualche modo è una cosa positiva, ma siamo ancora molto in ritardo nel comprenderne le implicazioni", spiega. "C'è un'enorme necessità, e un'enorme opportunità, di studiare i cambiamenti". I ricercatori stanno cominciando a fare proprio questo, e i dati che stanno emergendo resistono alle semplificazioni. I progressi nelle tecnologie digitali possono cambiare il lavoro in modi complessi e sfumati, creando opportunità e rischi per i lavoratori.
Ecco tre domande pressanti sul futuro del lavoro in un mondo digitale ed ecco le risposte che i ricercatori stanno cominciando a dare.
1) L'apprendimento automatico scalzerà i lavoratori specializzati?
Nelle precedenti ondate di automazione, i progressi tecnologici hanno permesso alle macchine di svolgere compiti semplici, ripetitivi e di routine. L'apprendimento automatico apre la possibilità di automatizzare compiti cognitivi più complessi e non routinari. "Per la maggior parte degli ultimi 40 o 50 anni, è stato impossibile automatizzare un compito prima di averlo compreso molto bene", dice Brynjolfsson.
"Questo non è più vero: ora le macchine possono imparare da sole".
I sistemi di apprendimento automatico possono tradurre parole, catalogare immagini, ordinare merci, individuare frodi e diagnosticare malattie, rivaleggiando con gli esseri umani in alcuni campi nuovi e sorprendenti. "Una macchina può gestire molti, molti e molti più dati di un essere umano", dice Thrun. All'inizio di quest'anno, ha guidato un gruppo di ricerca che ha dimostrato che circa 129.000 immagini di lesioni cutanee potrebbero essere utilizzate per addestrare una macchina a diagnosticare il cancro della pelle con un livello di precisione
paragonabile a quello di dermatologi qualificati.
Questi progressi hanno fatto sorgere la preoccupazione che tali sistemi possano sostituire i lavoratori umani in campi che una volta sembravano troppo complessi per essere automatizzati. Le stime iniziali sembravano terribili. Nel 2013, i ricercatori dell'Oxford Martin Programme on Technology and Employment dell'Università di Oxford, nel Regno Unito, hanno esaminato i progressi e i problemi ancora sul tavolo nell'apprendimento automatico e nella robotica mobile, per stimare in che misura 702 lavori diversi fossero esposti al rischio di automazione. La loro sorprendente conclusione è stata che il 47 per cento dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarebbe ad alto rischio di
informatizzazione, in particolare gli impieghi nei settori dei trasporti, della logistica, della produzione e dell'amministrazione.
Da allora, però, altri ricercatori hanno sostenuto che la percentuale del 47 per cento è troppo elevata, data la varietà di compiti che i lavoratori tendono a svolgere in molte occupazioni. "Se si va più in profondità, se si analizza la struttura dei compiti svolti effettivamente dalle persone, si scopre che le stime si abbassano", afferma Ulrich Zierahn, ricercatore senior del Centre for European Economic Research... (segue altro...)
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