Rivista Militare 5 2023, Umberto BROCCOLI - Quando canta il gallo.
7 feb 2023 ·
11 min. 59 sec.
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Le storie della Storia - Quando canta il gallo di Umberto Broccoli Estate del 390 a.C, qualche giorno prima del 18 luglio. Fa caldo a Roma. La gente cerca refrigerio...
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Le storie della Storia - Quando canta il gallo
di Umberto Broccoli
Estate del 390 a.C, qualche giorno prima del 18 luglio. Fa caldo a Roma. La gente cerca refrigerio nel Tevere, ma non è la temperatura a occupare le discussioni delle persone. Il tema del giorno è la minaccia dei Galli, scesi da Senigallia e in marcia verso Roma. La storia ci ha abituati a queste passeggiate alla ricerca di potere e spazio vitale in compagnia degli eserciti e in questo caso la marcia su Roma è firmata Brenno, capo carismatico dei Galli, nemici di Roma in quel momento. L’armata è arrivata a undici miglia dalle mura della città alla confluenza del Tevere con l’Allia, un fiumiciattolo lungo la via Salaria. Roma è ancora nella sua fase sperimentale. Siamo nella Repubblica dei patrizi e dei plebei, del Senato e dei Senatori, dei due consoli, due di numero per tentare di andare d’accordo controllandosi a vicenda. Anche Roma ha puntato sullo spazio vitale e - durante la monarchia - ha gettato bene le sue basi per espandersi. Con Anco Marcio ha conquistato territori a Nord e a Sud dei sette colli, distruggendo città e deportandone gli abitanti come plebei. Siamo nel VI secolo a.C.: Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) e Servio Tullio (578-534 a.C.) hanno pensato di circondare Roma delle sue prime mura, senza dubbio più efficienti nel momento in cui fuori da quelle mura esiste uno spazio vitale libero, una terra bruciata e dominata dai romani come zona di rispetto entrando nella quale si è nemici se non si è invitati. Brenno è potenza nascente. I suoi Galli scendono in Etruria, combattono, depredano, conquistano e sono i barbari, luogo comune ideologico con il quale tanto la Grecia, quanto Roma etichettano chi greco e romano non è. I Galli sono rozzi, i Galli sono ignoranti, i Galli sono predoni, nemici della cultura e dei mos maiorum, il costume dei padri. Quando si diffonde la notizia della presenza di questi soggetti animaleschi a poche miglia da Roma, il governo affronta il problema con presunzione temeraria. Secoli dopo Tito Livio descrive l’atteggiamento. I comandanti militari schierano l’esercito nei pressi del fiume Allia “senza aver scelto in anticipo uno spazio per il campo, senza aver costruito una trincea che potesse fungere da riparo in caso di ritirata”. Non solo. Ma la presunzione inconsapevole romana mette da parte anche la religione. Parola di Livio: “dimentichi, per non dire degli uomini, anche degli dèi, non essendosi minimamente preoccupati di trarre i dovuti https://it.wikipedia.org/wiki/Auspicia e di offrire sacrifici https://it.wikipedia.org/wiki/Augure” In sintesi, i romani non si erano minimamente preoccupati di chiedere l’aiuto divino, giacché la guerra santa e benedetta dal dio è da sempre l’autorizzazione a procedere per le nefandezze dell’uomo. Siamo di fronte a un delirio di onnipotenza probabilmente dovuto alla vittoria di Roma su Veio, città etrusca vicina e rivale, vittoria ottenuta grazie anche alla religione. È Furio Camillo, dittatore, pronto a giocarsi ogni carta pur di prevalere, religione compresa. A Veio è il tempio di Giunone Regina e Camillo promette alla dea di dedicarle un tempio maggiore di quello veiente, chiamando in causa lo stesso Apollo. Ecco la preghiera di Camillo, secondo Livio: «Sotto la tua guida, Apollo Pitico, e stimolato dalla tua volontà, mi accingo a distruggere Veio e faccio voto di consacrare a te la decima parte del bottino. E insieme prego te Giunone Regina che ora siedi in Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città che presto diventerà anche la tua perché lì ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza.» È il 396 a.C. e gli dei abbandonano Veio. La città cade e Roma fa il deserto attorno a sé con una zona di rispetto di decine di chilometri a Nord e a Sud. Tutto questo, a ben vedere, è riscontrabile ancora oggi. Roma è geograficamente isolata: non ci sono centri di rilevo nel giro di chilometri e chilometri, come invece è per tutte le altre città italiane. E questo isolamento deriva direttamente dalla prime guerre di conquista della Roma delle origini. Ma in quella estate del 390 le cose vanno diversamente. L’esercito di Brenno non è quello immaginato dai Romani. I Galli non sono quel branco disorganizzato di predoni con elmi cornuti in testa. I Galli sono senza dubbio meglio disposti dei Romani, troppo tracotanti e convinti della loro forza presunta. E dalla forza presunta alla presunzione il passo è brevissimo, pronto a naufragare nella disfatta. Ecco cosa succede. Parola di Livio: «Non appena le grida dei Galli arrivarono alle orecchie dei più vicini di fianco e ai più lontani alle spalle, i Romani, prima ancora di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza e senza non dico tentare la lotta, ma addirittura senza far eco al grido di battaglia, si diedero alla fuga integri di forze e illesi. In battaglia non ci furono perdite. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nella confusione della fuga, si intralciavano a vicenda combattendo gli uni con gli altri. Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu una grande strage: moltissimi, non sapendo nuotare o stanchi, appesantiti dalle corazze e dal resto dell'armatura, annegarono nella corrente. Il grosso dell’esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a Veio. E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno un messaggero con la notizia della disfatta. Gli uomini schierati all’ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un punto più vicino alle pendici del monte, si diressero in massa a Roma e lì, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere le porte, si rifugiarono nella cittadella” I Galli non cantano all’alba: urlano. E quell’urlo basta a far scappare via di corsa i Romani, in modo vile e vergognoso. Tutti a gambe levate, creando dissesti nelle retrovie, anch’esse in fuga, ma ostacolate dalla fuga delle prime linee. Per cui morti, feriti e dispersi sono tutti causati dalla paura dei Romani: chi resta stritolato sotto le gambe dei fuggitivi, chi annega nel fiume perché appesantito da armi mai usate, chi muore di paura al solo sentire quell’urlo di guerra dei Galli. Una disfatta totale con tutto quanto ne deriva, ben noto e raccontato dai libri di storia. Ripiegando, i Romani, dimenticano aperte le porte della città e i Galli entrano, saccheggiano, oltraggiano i senatori, bruciano tutto quanto trovano ad impedire la loro marcia. Altrove è caos, è fuga, è terrore. Ecco le oche del Campidoglio, starnazzanti all’ arrivo dei Galli urlanti. E, starnazzando, avvisano dell’arrivo dei nemici. Ecco Marco Papirio, senatore assieme ad altri settantanove resistenti, biancovestiti e barbuti, immobili come statue. I Galli urlanti tacciono entrando nell’aula e vedendo queste figure statuarie. Sono uomini o statue di divinità? Si chiedono ingenuamente i barbari urlatori. Al che uno di loro si avvicina a Papirio e gli tira la barba per verificare se fosse uomo o statua. Ma Papirio è uomo, anzi è senatore e - come tale - degno di rispetto e non alla mercé di un Gallo qualsiasi. Per cui il senatore non più immobile reagisce con una bastonata data con il suo scettro d’avorio sulla testa del barbaro il quale ricambia la cortesia uccidendolo. Ecco Furio Camillo, dittatore ancora una volta, intervenire nella trattativa per ristabilire la pace. Trattativa difficile come tutte le trattative tra chi sta vincendo e chi no. I Galli se ne andranno se si pagherà un riscatto in oro. E i Galli, oltre alle urla belluine, sanno anche barare sul prezzo per cui truccano la bilancia con la quale pesare le mille libbre d’oro necessarie a comperare la pace. Alle proteste romane Brenno reagisce urlando (è una costante) Vae victis! (Guai ai vinti!). Furio Camillo non ci sta urlando a sua volta «Non auro, sed ferro, recuperanda est patria!» (Non con l’oro ma con il ferro si riscatta la patria) e alla fine vincerà. Tutto questo oltre a essere storia leggendaria trova un riscontro nella storia dell’arte moderna. Ecco Paul Joseph Jamin, francese, esponente del Classicismo Accademico, un movimento della seconda metà del XIX secolo, di stile poco gradito e definito Arte accademica, o art pompier, perché eseguita con tecnica eccellente, ma ritenuta vuota, falsa e di cattivo gusto. Jamin rappresenta Brenno e il suo bottino nel 1893 (fig.1). La scena è degna di un sandalone: così si chiamavano familiarmente i film in costume greco-romano girati tra anni Cinquanta e anni Sessanta. Brenno è sullo sfondo con tanto di elmo cornuto. Art pompier sottolineava il ridicolo presente proprio nei copricapo dei guerrieri rappresentati, elmi simile a quelli dei vigili del fuoco dell’epoca. In primo piano, i tesori strappati ai Romani tra schiave nude immancabili. Ecco Évariste-Vital Luminais, altro pompiere. Si cimenta ne L’invasione gallica (fig.2) nel quale i colori raccontano angoscia e speranza. In primo piano i cavalli avanzano in un ambiente cupo di angoscia, diradato all’orizzonte nel profilo degli edifici di Roma visti in una luce più chiara: la luce della speranza di superare il momento e riprendere la strada della libertà. A distanza di oltre un secolo dai dipinti di questi artisti non mi sento di condividere le critiche sollevate allora e non solo contro queste manifestazioni. È lettura, è interpretazione del mito, è desiderio di dare un corpo reale a storie perse nella notte dei tempi. È tentativo di dare forma a parole millenarie, per definizione senza forma. Se critichiamo queste immagini (anche se a tratti eccessivamente romantiche nel loro classicismo), dobbiamo esorcizzare ogni ricostruzion
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di Umberto Broccoli
Estate del 390 a.C, qualche giorno prima del 18 luglio. Fa caldo a Roma. La gente cerca refrigerio nel Tevere, ma non è la temperatura a occupare le discussioni delle persone. Il tema del giorno è la minaccia dei Galli, scesi da Senigallia e in marcia verso Roma. La storia ci ha abituati a queste passeggiate alla ricerca di potere e spazio vitale in compagnia degli eserciti e in questo caso la marcia su Roma è firmata Brenno, capo carismatico dei Galli, nemici di Roma in quel momento. L’armata è arrivata a undici miglia dalle mura della città alla confluenza del Tevere con l’Allia, un fiumiciattolo lungo la via Salaria. Roma è ancora nella sua fase sperimentale. Siamo nella Repubblica dei patrizi e dei plebei, del Senato e dei Senatori, dei due consoli, due di numero per tentare di andare d’accordo controllandosi a vicenda. Anche Roma ha puntato sullo spazio vitale e - durante la monarchia - ha gettato bene le sue basi per espandersi. Con Anco Marcio ha conquistato territori a Nord e a Sud dei sette colli, distruggendo città e deportandone gli abitanti come plebei. Siamo nel VI secolo a.C.: Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) e Servio Tullio (578-534 a.C.) hanno pensato di circondare Roma delle sue prime mura, senza dubbio più efficienti nel momento in cui fuori da quelle mura esiste uno spazio vitale libero, una terra bruciata e dominata dai romani come zona di rispetto entrando nella quale si è nemici se non si è invitati. Brenno è potenza nascente. I suoi Galli scendono in Etruria, combattono, depredano, conquistano e sono i barbari, luogo comune ideologico con il quale tanto la Grecia, quanto Roma etichettano chi greco e romano non è. I Galli sono rozzi, i Galli sono ignoranti, i Galli sono predoni, nemici della cultura e dei mos maiorum, il costume dei padri. Quando si diffonde la notizia della presenza di questi soggetti animaleschi a poche miglia da Roma, il governo affronta il problema con presunzione temeraria. Secoli dopo Tito Livio descrive l’atteggiamento. I comandanti militari schierano l’esercito nei pressi del fiume Allia “senza aver scelto in anticipo uno spazio per il campo, senza aver costruito una trincea che potesse fungere da riparo in caso di ritirata”. Non solo. Ma la presunzione inconsapevole romana mette da parte anche la religione. Parola di Livio: “dimentichi, per non dire degli uomini, anche degli dèi, non essendosi minimamente preoccupati di trarre i dovuti https://it.wikipedia.org/wiki/Auspicia e di offrire sacrifici https://it.wikipedia.org/wiki/Augure” In sintesi, i romani non si erano minimamente preoccupati di chiedere l’aiuto divino, giacché la guerra santa e benedetta dal dio è da sempre l’autorizzazione a procedere per le nefandezze dell’uomo. Siamo di fronte a un delirio di onnipotenza probabilmente dovuto alla vittoria di Roma su Veio, città etrusca vicina e rivale, vittoria ottenuta grazie anche alla religione. È Furio Camillo, dittatore, pronto a giocarsi ogni carta pur di prevalere, religione compresa. A Veio è il tempio di Giunone Regina e Camillo promette alla dea di dedicarle un tempio maggiore di quello veiente, chiamando in causa lo stesso Apollo. Ecco la preghiera di Camillo, secondo Livio: «Sotto la tua guida, Apollo Pitico, e stimolato dalla tua volontà, mi accingo a distruggere Veio e faccio voto di consacrare a te la decima parte del bottino. E insieme prego te Giunone Regina che ora siedi in Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città che presto diventerà anche la tua perché lì ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza.» È il 396 a.C. e gli dei abbandonano Veio. La città cade e Roma fa il deserto attorno a sé con una zona di rispetto di decine di chilometri a Nord e a Sud. Tutto questo, a ben vedere, è riscontrabile ancora oggi. Roma è geograficamente isolata: non ci sono centri di rilevo nel giro di chilometri e chilometri, come invece è per tutte le altre città italiane. E questo isolamento deriva direttamente dalla prime guerre di conquista della Roma delle origini. Ma in quella estate del 390 le cose vanno diversamente. L’esercito di Brenno non è quello immaginato dai Romani. I Galli non sono quel branco disorganizzato di predoni con elmi cornuti in testa. I Galli sono senza dubbio meglio disposti dei Romani, troppo tracotanti e convinti della loro forza presunta. E dalla forza presunta alla presunzione il passo è brevissimo, pronto a naufragare nella disfatta. Ecco cosa succede. Parola di Livio: «Non appena le grida dei Galli arrivarono alle orecchie dei più vicini di fianco e ai più lontani alle spalle, i Romani, prima ancora di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza e senza non dico tentare la lotta, ma addirittura senza far eco al grido di battaglia, si diedero alla fuga integri di forze e illesi. In battaglia non ci furono perdite. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nella confusione della fuga, si intralciavano a vicenda combattendo gli uni con gli altri. Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu una grande strage: moltissimi, non sapendo nuotare o stanchi, appesantiti dalle corazze e dal resto dell'armatura, annegarono nella corrente. Il grosso dell’esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a Veio. E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno un messaggero con la notizia della disfatta. Gli uomini schierati all’ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un punto più vicino alle pendici del monte, si diressero in massa a Roma e lì, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere le porte, si rifugiarono nella cittadella” I Galli non cantano all’alba: urlano. E quell’urlo basta a far scappare via di corsa i Romani, in modo vile e vergognoso. Tutti a gambe levate, creando dissesti nelle retrovie, anch’esse in fuga, ma ostacolate dalla fuga delle prime linee. Per cui morti, feriti e dispersi sono tutti causati dalla paura dei Romani: chi resta stritolato sotto le gambe dei fuggitivi, chi annega nel fiume perché appesantito da armi mai usate, chi muore di paura al solo sentire quell’urlo di guerra dei Galli. Una disfatta totale con tutto quanto ne deriva, ben noto e raccontato dai libri di storia. Ripiegando, i Romani, dimenticano aperte le porte della città e i Galli entrano, saccheggiano, oltraggiano i senatori, bruciano tutto quanto trovano ad impedire la loro marcia. Altrove è caos, è fuga, è terrore. Ecco le oche del Campidoglio, starnazzanti all’ arrivo dei Galli urlanti. E, starnazzando, avvisano dell’arrivo dei nemici. Ecco Marco Papirio, senatore assieme ad altri settantanove resistenti, biancovestiti e barbuti, immobili come statue. I Galli urlanti tacciono entrando nell’aula e vedendo queste figure statuarie. Sono uomini o statue di divinità? Si chiedono ingenuamente i barbari urlatori. Al che uno di loro si avvicina a Papirio e gli tira la barba per verificare se fosse uomo o statua. Ma Papirio è uomo, anzi è senatore e - come tale - degno di rispetto e non alla mercé di un Gallo qualsiasi. Per cui il senatore non più immobile reagisce con una bastonata data con il suo scettro d’avorio sulla testa del barbaro il quale ricambia la cortesia uccidendolo. Ecco Furio Camillo, dittatore ancora una volta, intervenire nella trattativa per ristabilire la pace. Trattativa difficile come tutte le trattative tra chi sta vincendo e chi no. I Galli se ne andranno se si pagherà un riscatto in oro. E i Galli, oltre alle urla belluine, sanno anche barare sul prezzo per cui truccano la bilancia con la quale pesare le mille libbre d’oro necessarie a comperare la pace. Alle proteste romane Brenno reagisce urlando (è una costante) Vae victis! (Guai ai vinti!). Furio Camillo non ci sta urlando a sua volta «Non auro, sed ferro, recuperanda est patria!» (Non con l’oro ma con il ferro si riscatta la patria) e alla fine vincerà. Tutto questo oltre a essere storia leggendaria trova un riscontro nella storia dell’arte moderna. Ecco Paul Joseph Jamin, francese, esponente del Classicismo Accademico, un movimento della seconda metà del XIX secolo, di stile poco gradito e definito Arte accademica, o art pompier, perché eseguita con tecnica eccellente, ma ritenuta vuota, falsa e di cattivo gusto. Jamin rappresenta Brenno e il suo bottino nel 1893 (fig.1). La scena è degna di un sandalone: così si chiamavano familiarmente i film in costume greco-romano girati tra anni Cinquanta e anni Sessanta. Brenno è sullo sfondo con tanto di elmo cornuto. Art pompier sottolineava il ridicolo presente proprio nei copricapo dei guerrieri rappresentati, elmi simile a quelli dei vigili del fuoco dell’epoca. In primo piano, i tesori strappati ai Romani tra schiave nude immancabili. Ecco Évariste-Vital Luminais, altro pompiere. Si cimenta ne L’invasione gallica (fig.2) nel quale i colori raccontano angoscia e speranza. In primo piano i cavalli avanzano in un ambiente cupo di angoscia, diradato all’orizzonte nel profilo degli edifici di Roma visti in una luce più chiara: la luce della speranza di superare il momento e riprendere la strada della libertà. A distanza di oltre un secolo dai dipinti di questi artisti non mi sento di condividere le critiche sollevate allora e non solo contro queste manifestazioni. È lettura, è interpretazione del mito, è desiderio di dare un corpo reale a storie perse nella notte dei tempi. È tentativo di dare forma a parole millenarie, per definizione senza forma. Se critichiamo queste immagini (anche se a tratti eccessivamente romantiche nel loro classicismo), dobbiamo esorcizzare ogni ricostruzion
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