L’IMMIGRAZIONE A NEW YORK

1 dic 2020 · 8 min. 1 sec.
L’IMMIGRAZIONE A NEW YORK
Descrizione

Adesso spostiamo la nostra storia a New York. In quegli anni l’industria americana si sviluppava a ritmi serrati. L’intera nazione era assetata di manovalanza, erano sempre di più ricercati uomini...

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Adesso spostiamo la nostra storia a New York. In quegli anni l’industria americana si sviluppava a ritmi serrati. L’intera nazione era assetata di manovalanza, erano sempre di più ricercati uomini robusti da impegnare in cave, miniere, ferrovie, scavi e costruzioni. Il centro di questo sviluppo era proprio New York, una delle città più prosperose e cosmopolita del mondo. L’ottanta per cento delle società con i fatturati più grossi d'america avevano sede in questa metropoli. Tutto avveniva in quelle strade, infatti si incrociavano i capitali provenienti da Wall Street con la manodopera dei migranti italiani sbarcata dai transatlantici a Ellis Island. Nell’isola li attendevano un centinaio di ispettori e ufficiali sanitari all'interno di un enorme centro per l’immigrazione. I Migranti venivano interrogati sulle loro prospettive di lavoro e gli uomini dovevano dimostrare di possedere già un’occupazione ad attenderli e dovevano possedere il denaro per mantenersi. Venivano anche visitati per accertare che non avessero delle malattie. Coloro che erano sospettati di essere affetti da patologie venivano trattenuti per ulteriori accertamenti all’interno del centro e segnati con delle lettere in base alla malattia sospettata. Coloro che venivano dichiarati non idonei venivano rispediti al loro paese d’origine. Finiti i controlli l'ondata di migranti si riversò sulla “est side” degli Stati uniti d’america. I primi italiani che si stabilirono a New York nel 1870 provenivano dalle città industrializzate del nord Italia. Erano per lo più operai specializzati e professionisti e ricevettero un’accoglienza cordiale. Con la seconda e più numerosa ondata, avvenuta intorno al 1980, l’immigrazione verso gli Stati Uniti fu sostenuta dai governi liberali italiani come necessaria valvola di sfogo per riuscire in parte a limitare il malcontento in alcune zone, in special modo nel Mezzogiorno. Erano per lo più contadini poveri e ignoranti.
E’ anche vero che in alcune aree degli Stati Uniti l’integrazione procedette meglio rispetto che in altre: in un articolo pubblicato dal New York Times il 6 ottobre 1895, sul quartiere di Little Italy a Manhattan, si affermava:
“Dopo aver imparato i nostri costumi, sono diventati cittadini industriosi”.
Ma a questa vicenda positiva se ne contrapposero anche tante negative. Successe anche che alcuni lavoratori furono ingaggiati nelle piantagioni di canna da zucchero in Louisiana, di fatto andarono a sostituire gli schiavi liberati qualche anno prima. I lavoratori italiani si sentirono esclusi dalla società sudista, a larga maggioranza protestante, tanto da solidarizzare spontaneamente con la comunità dei neri liberi, trattandoli da pari.
Intorno al 1910 il numero degli italiani che vivevano a New York era di quasi mezzo milione di cui due terzi tra coloro che arrivavano erano uomini. Essi vivevano in promiscuità e nella quasi totale assenza di igiene. Vivendo in comunità così chiuse riproducevano il microcosmo della società che avevano lasciato in Italia. Per gran parte dei Siciliani e dei napoletani gli Stati Uniti erano solo un luogo dove lavorare guadagnare spendere il meno possibile accumulare il denaro per poi progettare di ritornare a vivere in patria. Gli italiani che venivano concentrati presso l’Ellis Island venivano trovati quasi tutti in possesso di armi, pistole, coltelli. In America allora non vi era una legge che vietasse il porto di queste armi e pertanto la città si riempì di uomini armati. Altro elemento che favorì la l'infiltrazione di criminali in America fu l'inesistente collaborazione tra le autorità di polizia italiane e quella degli Stati Uniti. In realtà il governo americano si interessava di conoscere i precedenti dei singoli soggetti in Italia solo quando si trattava di delin quenti che si erano macchiati di diversi gravi delitti in America e avevano pertanto intenzione di espellerli.
I quartieri in cui andavano ad abitare gli immigrati erano quelli più antichi della città, occupati da due generazioni prima dagli irlandesi. Si trattava di Elizabeth e Mulberry Street. Erano zone ancora in via di assestamento tra le più degradate della città. Erano infestate di malattie, rifugio per disperati e miserabili, invasa dai rifiuti. Le condizioni di vita dei migranti erano dure, ma certo non meno difficili di quelle che avevano lasciate in Italia. La case erano sporche, fredde e umide, l’unica fonte di calore erano i fornelli della cucina. Il carbone veniva ammassato nelle stanze da letto per cui le case erano sporche. In estate si moriva di caldo tanto che gli immigrati dormivano sui tetti o sulle scale antincendio. Non esisteva Pricacy. Non vi era differenza tra camere da letto e cucine. I servizi igienici erano condivisi da cinquanta persone. Non esistevano i bagni per cui per lavarsi era necessario recarsi in quelli pubblici. Tutti gli appartamenti erano infestati da insetti nocivi e roditori. Le stanze si riempivano soprattutto di sera quando gli uomini tornavano dal lavoro per mangiare e dormire. I bambini giocavano per strada non vi erano parchi per loro. L’unico vantaggio rispetto a chi lavorava in Italia era il salario. Decisamente più alto negli Stati Uniti d’America. Anche se la vita costava molto di più gli immigrati italiani, sopportando tremende privazioni, riuscivano a mettere qualcosa da parte per poi inviarlo in patria. L’alimentazione era prevalentemente basata sulla pasta e sugli ortaggi. Quasi sconosciuta era la carne. Anche gli indumenti a disposizione erano sempre gli stessi tranne la domenica dove si indossavano quelli nuovi. I lavori che erano riservati agli italiani erano quelli che non volevano fare gli americani. Raccolta di stracci, lavoro nelle fogne, trasporto della spazzatura, costruzione della metropolitana. Le donne lavoravano in laboratori male illuminati dove cucivano per nove ore al giorno.
Immediati furono gli scontri con la comunità irlandese già presente a New York. Le due comunità iniziarono da subito un vero e proprio conflitto razziale. Gli italiani, come prima detto, erano talmente disprezzati che quando una famiglia italiana si stabiliva in un caseggiato gli irlandesi si trasferivano. I nostri migranti venivano derisi e oltraggiati con i peggiori epiteti: mangaspaghetti, cafoni e con il più detestato tra tutti guinea che equiparava gli italiani agli schiavi importati dalla costa occidentale africana. In quegli anni furono gli irlandesi a controllare la metropoli attraverso Tammany Hall, un'organizzazione politica di matrice irlandese. Era evidente che il controllo politico sociale avvenisse con la violenza.
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Autore Fabio Fabiano
Organizzazione Fabio Fabiano
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