I dialoghi delle carmelitane*** (1960) - La storia delle martiri di Compiégne
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TESTO DELL'ARTICOLO ➜http://www.filmgarantiti.it/it/articoli.php?id=297 LA STORIA DELLE MARTIRI DI COMPIEGNE Racconto di Padre Antonio Maria Sicari Le martiri di Compiègne sono sedici monache carmelitane uccise durante la Rivoluzione Francese. La famosa...
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Racconto di Padre Antonio Maria Sicari
Le martiri di Compiègne sono sedici monache carmelitane uccise durante la Rivoluzione Francese. La famosa «Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo» fu promulgata il 26 agosto 1789; pochi mesi dopo giunse puntualmente la proibizione di emettere i voti religiosi (in nome della libertà individuale), e la soppressione degli Ordini religiosi, a cominciare da quelli contemplativi. Il teorema era semplice: non può essere libero chi si rinchiude in un convento e si vincola con dei voti; se qualcuno lo fa, è segno che è stato costretto. Compito della ragione (e della Nazione) è restituirgli la Libertà.
Fu allora che le priore di tre monasteri carmelitani, a nome di tutti gli altri, inviarono all'Assemblea Nazionale un «indirizzo» in cui si legge:
«Alla base dei nostri voti c'è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi qui non conosciamo né ricchi, né nobili. Nel mondo si ama dire che i monasteri rinchiudono vittime consumate lentamente dai rimorsi; ma noi confessiamo davanti a Dio che, se c'è sulla terra la felicità, noi siamo felici».
Quei rivoluzionari, a riguardo di voti e monasteri, avevano la ragione illuminata da ciò che avevan letto o sentito dire da letterati, teatranti, gazzettieri e filosofi: avevano cioè idee morbose e romantiche, simili a quelle che ancor oggi si trovano in certi romanzi d'appendice o in certe «telenovelas». Perciò la persecuzione cominciò con la cavalleresca e ridicola sollecitudine con cui uno stuolo di ufficiali municipali andarono a battere alle porte dei monasteri per offrirsi come paladini e liberatori.
Siamo in grado di descrivere esattamente ciò che accadde nel monastero di Compiègne, dove allora si trovavano 16 religiose professe. C'era anche una giovane novizia che all'ultimo momento era stata impedita dal prendere i voti, proprio da quel decreto che «non riconosceva più né voti religiosi né alcun altro arruolamento che sia contrario ai diritti naturali». Giunsero dunque gli ufficiali municipali, violarono la clausura e si insediarono nella grande sala capitolare: alle due porte furono messe quattro guardie. Altre guardie furono schierate, una alla porta di ogni cella, per impedire che le suore potessero comunicare tra loro, e soprattutto che avessero contatti con la Priora; anche le altre porte dei chiostri furono presidiate.
L'INTERROGATORIO
Ogni monaca venne dunque convocata singolarmente: a ognuna il presidente «annunciava (testualmente!) di essere apportatore di libertà, e la invitava a parlare senza timore e a dichiarare se voleva uscire di clausura e tornarsene in famiglia...». Un segretario intanto prendeva accuratamente nota delle risposte, la cui veridicità è perciò garantita dagli stessi «oppositori».
La priora, convocata per prima, dichiarò «di voler vivere e morire in quella santa casa».
Un'anziana disse «che era suora da cinquantasei anni e ne avrebbe desiderati ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore».
Una suora disse d'essersi fatta religiosa «di suo pieno gradimento e di propria volontà» e di essere «fermamente risoluta a conservare il proprio abito, anche a prezzo del proprio sangue».
Un'altra spiegò che «non c'era felicità così grande come quella di vivere da carmelitana» e che «il suo più ardente desiderio era di vivere e di morire tale».
Un'altra ancora insisté che «se avesse avuto mille vite tutte le avrebbe consacrate allo stato che aveva scelto, e che nulla poteva convincerla ad abbandonare la casa dove abitava e dove aveva trovato la sua felicità».
Un'altra aggiunse che «approfittava di quella occasione per rinnovare i suoi voti religiosi, e anzi ne approfittava anche per regalare ai magistrati una poesia che aveva appena finito di scrivere, sull'argomento della sua vocazione» (ma quelli, andandosene, lasciarono il foglio sul tavolo, con disprezzo).
E un'altra ancora precisò che «se avesse potuto raddoppiare i vincoli che la legavano a Dio, lo avrebbero fatto con tutte le forze e con immensa gioia».
La più giovane professa, infine - che aveva emesso i voti proprio in quell'anno - osservò che «una sposa ben nata resta col suo Sposo, e che perciò niente la poteva indurre ad abbandonare il suo Sposo divino, Nostro Signore Gesù Cristo».
IL LINGUAGGIO DEI MARTIRI
Le Monache di Compiègne condotte al patibolo cominciarono a essere martiri, quando - senza nemmeno rendersene conto - cominciarono a usare il linguaggio dei martiri: quello di chi - messo alla prova definitiva - afferma con tutto il suo cuore che «niente lo potrà mai separare da Cristo».
Non venne interrogata la novizia perché non aveva voti e quindi, prima o poi, doveva tornarsene a casa per forza. Anzi i parenti erano venuti per riprendersela, ma ella stessa disse loro che «niente e nessuno poteva separarla dalla comunione con la madre e con le sorelle di quel monastero». Se ne erano andati dichiarando «di non voler più sentir parlare di lei, e nemmeno ricevere sue lettere»: dando così paradossale conferma alla scelta della ragazza.
È giusto avvertire subito che solo impropriamente si parla delle «sedici carmelitane di Compiègne»: in realtà le monache uccise furono solo quattordici, le altre due vittime furono delle inservienti laiche, così affezionate che vollero condividere la sorte delle loro suore fino a condividere anche la stessa passione e la stessa gloria. Possiamo anche aggiungere con fierezza che in tutti i monasteri di Francia - che contavano allora circa millenovecento religiose - le defezioni furono soltanto cinque o sei.
Intanto l'Assemblea Nazionale continuava a dare dimostrazione traumatica di come la cosiddetta «ragione illuminata» non riuscisse a comprendere quel «fatto nuovo» (anche se vecchio di secoli, e appesantito) che è la Chiesa. Si negava ad ogni costo quella evidenza che le monache si intestardivano invece a testimoniare: che si è perfettamente liberi solo nella più stretta e devota consegna di sé; che una libertà amante non teme di legarsi e di dipendere; e che contro la libertà non sta l'appartenenza, ma la costrizione.
In nome di una «Uguaglianza» razionalisticamente intesa, si cominciò a volere ridisegnare la struttura stessa della Chiesa. Anzitutto si pensò di dare una «Costituzione civile» al clero: obbligare i preti a prestare un giuramento di fedeltà alla Nazione; demandare alle Assemblee dipartimentali le elezioni dei preti e dei vescovi; ridurre le diocesi a strutture amministrative; proibire i segni distintivi (ad es. l'abito religioso). Chi non accettava la serie delle disposizioni poteva essere condannato alla deportazione o alla morte come «refrattario»: refrattario a lasciarsi rendere uguale in un campo in cui Cristo aveva previsto qualche «diseguaglianza». Nemmeno il Papa doveva emergere da quella palude di egualitarismo: cristiani, preti e vescovi lo potevano al massimo genericamente venerare e informare, ma il legame con lui doveva restare comunque inincidente e superfluo. C'era poi da spingere il processo di «liberazione» fino a sciogliere la ragione da tutte le indebite pastoie, e fino a farla trionfare su tutti i «fanatismi»: dogmi, miracoli, credenze nell'al-di-là e simili. Poiché questa «libertà» e questa «uguaglianza» non potevano essere accettate da questi «uomini» (cioè: dai cristiani che volevano restar fedeli a Cristo e alla sua Chiesa), essi non potevano nemmeno essere considerati «fratelli»: e venne il Terrore. Nel solo mese di settembre 1792 si conteranno circa 1600 vittime in un massacro durato tre giorni.
IL CARMELO E IL MARTIRIO
Nel Carmelo l'idea del martirio non era un'idea strana e lontana: fa parte della spiritualità di quest'Ordine religioso il ricordo degli insegnamenti di Teresa d'Avila che fin da bambina aveva cercato il martirio per il desiderio di «vedere Dio» e di affrettare l'incontro con Lui, e aveva poi profetizzato: «In avvenire quest'Ordine fiorirà, e avrà molti martiri». «Quando si vuole servire Dio sul serio - ella insegnava - il minimo che gli si possa offrire è il sacrificio della vita». S. Giovani della Croce aveva udito un giorno un suo confratello dire che «con la grazia di Dio, sperava riuscire a sopportare pazientemente anche il martirio, se fosse stato proprio necessario», e gli aveva ribattuto con infinita meraviglia: «e lo dite con tanta tiepidezza, fra Martino? Dovreste dirlo con grandissimo desiderio!». E ancor più le carmelitane francesi non potevano dimenticare che Teresa d'Avila aveva riformato il Carmelo proprio perché «scossa dalle sventure che desolavano la terra e la Chiesa di Francia»: offrire a questo scopo la vita faceva quasi parte della loro vocazione più originaria.
Nella Pasqua del 1792 la Priora di Compiègne - lasciando ogni monaca libera di decidere - propose a chi lo voleva di offrirsi con lei «in olocausto, per placare la collera di Dio, e in modo che questa divina pace che il suo caro Figlio è venuto a portare nel mondo, sia restituita alla Chiesa e allo Stato». Le due più anziane all'inizio furono prese dall'angoscia: le terrorizzava il pensiero della lugubre ghigliottina; ma poi vollero offrirsi assieme a tutte le loro sorelle. Da allora la comunità rinnoverà l'atto di offerta, ogni giorno, durante la Santa Messa, legandosi sempre più coscientemente al Sacrificio di Cristo. Il 12 settembre ricevettero l'ordine di abbandonare il monastero, che venne requisito. Subaffittarono allora delle stanze, in uno stesso quartiere, in quattro case vicine, e si divisero in gruppetti: riuscendo a comunicare tra loro passando tra i giardini e i cortili interni. Non avevano più monastero, né clausura, né grate, né chiesa: periodicamente si riunivano nell'abitazione della Priora, per averne sostegno e guida, e per il resto cercavano come potevano di osservare la loro regola di preghiera, di silenzio e di lavoro, anche in quella situazione così inattesa e precaria.
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Autore | BastaBugie |
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