Sapevi che i cinque cerchi olimpici rappresentano non solo i cinque continenti, ma anche cinque valori fondamentali? In questo podcast, esploreremo questi valori attraverso storie emozionanti di atleti , momenti memorabili e sfide appassionanti. Preparati ad un viaggio nel cuore delle Olimpiadi, dove sport e valori si incontrano! Quarto Episodio Abebe Bikila, Momo Wolde, John Stephen Akhwary: Lealtà verso sé stessi e verso il proprio paese… Io sono Fabrizio Silvestri e ti ringrazio di aver scelto questo quarto episodio di Olimpia Racconta! Oggi ti farò rivivere l'incredibile storia di tre eroi dello sport, simboli di lealtà verso sé stessi, verso gli altri e verso la propria nazione. Per raccontarti queste storie dobbiamo sfogliare il calendario delle olimpiadi all’indietro fino agli anni Sessanta, quando tre atleti africani emozionano il mondo intero dimostrando come lo sport possa essere un potente strumento di integrazione, solidarietà e patriottismo. 1968, un anno denso di avvenimenti che hanno segnato la storia: la Primavera di Praga, il massacro di My Lay, gli assassini di Martin Luther King e Robert Kennedy. In questo clima di forti tensioni internazionali, in ottobre a Città del Messico si svolgono i Giochi della XIX Olimpiade. Un'edizione rimasta famosa per i pugni chiusi avvolti in un guanto nero e rivolti al cielo dagli statunitensi Tommie Smith e John Carlos in segno di protesta contro il razzismo. E oggi, in questo quarto episodio di Olimpia Racconta, vogliamo mettere in luce un altro aspetto importantissimo dello sport: la lealtà. Quella lealtà che è il fondamento imprescindibile dei Giochi, non solo nei confronti degli altri atleti, ma anche, come vedremo, nei confronti di se stessi, del proprio Paese e di chi crede in te. Per questo oggi ti parlerò dell'incredibile maratona dELL’Olimpiade DEL 1968 in terra messicana e dell'enorme lealtà, in primis verso sé stesso, mostrata da un atleta che ha scritto il suo nome nella leggenda dello sport: Abebe Bikila. La storia di Abebe Bikila è una storia di coraggio, di sacrificio e di immensa lealtà. È la storia di un uomo che ha saputo affrontare le sfide più difficili con tenacia e determinazione, dimostrando al mondo cosa significa essere un vero campione. 20 ottobre 1968, l'aria si fa elettrica per la maratona più attesa dei Giochi olimpici a città del Messico. Tutti gli occhi sono puntati su Abebe Bikila, il leggendario atleta etiope che ha già conquistato due ori olimpici correndo a piedi nudi a Roma nelle Olimpiadi del 1960 e quattro anni dopo con le scarpe a Tokyo. A 36 anni, Abebe insegue uno storico tris che lo proietterebbe nell'Olimpo degli immortali. Ma il destino per lui ha altri piani. Un dolore lancinante al ginocchio lo costringe al ritiro dopo 17 km di gara. Un colpo durissimo per Abebe, ma anche per l'Etiopia che vede sfumare il sogno di un nuovo trionfo. Tuttavia, un altro eroe si prepara a prendersi la scena: Degaga Wolde per tutti Momo, amico e compagno di squadra di Abebe. Anche lui è un veterano, ha già 36 anni e una carriera militare alle spalle. Ma Momo è un guerriero, un combattente che non si arrende mai. Dopo aver conquistato l'argento nei 10.000metri, Momo si lancia nella maratona con determinazione e coraggio. Al 25° km, il keniota Temu, fino a quel momento in testa, cede. Momo approfitta, prende il comando della corsa e non lo molla più. Taglia il traguardo in solitaria, con oltre 3 minuti di vantaggio sul secondo. L'Etiopia è salva, l'oro olimpico torna a brillare sul petto di un suo figlio. Ma la vera sorpresa arriva poco dopo. Quando su Città del Messico inizia a calare la sera, un altro atleta compare all'orizzonte. È John Stephen Akhwary, il maratoneta della Tanzania. Ha il corpo provato dalla fatica, il volto insanguinato, la spalla dolorante. Ma non si arrende. Continua a correre, passo dopo passo, spinto dalla forza di volontà e dal desiderio di onorare la sua nazione. [Musica di sottofondo si fa più intensa e carica di pathos] Dopo 65 minuti dall'arrivo di Momo Wolde, John Stephen Akhwary taglia il traguardo tra gli applausi del pubblico. Non ha vinto una medaglia, ma ha conquistato il cuore di tutti. Ha dimostrato che l' importante non è solo vincere, ma partecipare con coraggio, lealtà e determinazione. Akhwary, fu considerato un novello Pietri… ti ricordi chi era Dorando Pietri? Abbiamo raccontato la sua impresa olimpica nella prima edizione di Olimpia Racconta. Dorando Pietri è passato alla storia delle Olimpiadi per il drammatico epilogo della maratona dei Giochi olimpici di Londra 1908: Pietri tagliò per primo il traguardo, in 2 ore e quaranta minuti sorretto dai giudici di gara che l'avevano soccorso dopo averlo visto barcollare più volte stremato dalla fatica. A causa di quell'aiuto fu squalificato e perse la medaglia d'oro… La stessa fatica, la stessa difficoltà di Pietri rivivono 60 anni dopo in MESSICO CON Akhwary che taglia il traguardo letteralmente stremato, incerottato, insanguinato e con una spalla evidentemente malconcia... Ma cosa è successo, chi, o cosa, lo ha conciato così? Il mistero viene svelato dal stesso atleta che, esausto, sofferente, trova però la forza di raccontare la propria incredibile esperienza olimpica. «La maratona ha inizio, l’afa di Città del Messico è per me insopportabile, il caldo soffocante ma nonostante questo tengo botta, almeno sino al diciannovesimo chilometro quando, inserito nel gruppo di testa, la scarsa abitudine a correre così tanto in altura e con una tale rarefazione dell’aria, mi fa letteralmente stramazzare al suolo. La caduta è rovinosa, l’impatto col suolo violento: ne esco malconcio, un legamento del ginocchio a pezzi, una dislocazione della spalla che mi provoca dolori lancinanti. Ce ne sarebbe abbastanza per mollare lì, ma la mia cocciutaggine, la responsabilità verso il mio Paese mi portano a rialzarmi per concludere la gara. Sono tutto un dolore, nel frattempo gli altri atleti mi sorpassano, divenendo puntini lontani sulla linea dell’orizzonte; il giorno pian piano cede il posto alle prime ombre della sera, il sole tramonta e sulla strada per lo stadio, unici miei compagni di avventura sono ormai rimasti i fanali delle automobili e delle motociclette della polizia che mi “scortano” sino all’ingresso dello stadio. Ancora un giro di pista, in un impianto semideserto, corroso da dolori lancinanti, mezzo storpio e vacillante, concludo la mia maratona, taglio il traguardo esausto, sfinito dalla fatica immane ma soddisfatto per aver onorato i colori della mia Tanzania». Il mai domo Akhawary, espressione sublime de valori di uno sport correttamente svolto, conclude così la propria odissea, giungendo al 57o posto, ultimo tra coloro che portano a compimento la gara su 75 partecipanti. Giunto sul traguardo, lo stremato atleta tanzaniano risponde così a chi gli chiede perché non si fosse ritirato viste le proprie condizioni: «Il mio paese non mi ha mandato qui, a 5 mila miglia da casa, perché mi ritirassi, mi ha mandato perché finissi la gara». de Coubertin avrebbe sicuramente apprezzato… Akhwary è un esempio di immensa lealtà nei confronti del proprio Paese, degli spettatori, del pubblico, di sé stesso e, non da ultimo, lealtà verso quei sacri principi tanto cari al de Coubertin, su tutti il più famoso “l’importante non è vincere, ma partecipare”... La maratona di Città del Messico del 1968 è stata una lezione di vita per tutti. Abebe Bikila, Momo Wolde e John Stephen Akhwary ci hanno insegnato che la lealtà, prima di tutto è verso se stessi e i propri ideali, la lealtà è la chiave per raggiungere grandi risultati e per lasciare un segno indelebile nel mondo. Il prossimo e ultimo episodio è dedicato allo spirito olimpico. Qualora tu lo voglia ti aspetto per raccontarti l’ultima emozionate storia di Olimpia racconta.
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