Aveva ragione Giacomo Leopardi, ne La ginestra, a sottolineare la potenza consolatrice della poesia dinnanzi all’insensatezza dell’esistenza: “Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola”. Una forma d’arte che, apparentemente, non aveva ancora del tutto rinunciato alla propria funzione consolatrice ma che, essenzialmente, ne era già consapevole. La poesia, come la danza, è un bellissimo rimedio di fronte al dolore del lutto e all’angoscia della morte, ma è destinato a fallire. Mettiamo in luce la contraddizione che si cela dietro a questo pensiero. Chi è sofferente e cerca consolazione nelle arti (o in un altro rimedio) desidera che quello che crede possa smettere di essere ciò che è (il desiderato) e diventare ciò che non è (l’ottenuto, il non-desiderato). Il desiderare, quindi, si fonda sulla convinzione che l’esser sé dell’essente sia il diventar-altro dell’essente stesso. Il desiderare, quindi, si fonda sulla convinzione che sia possibile il diventar-altro degli essenti, che sia possibile per il mortale diventare immortale. Questa è la convinzione della volontà originaria che crede che tutte le cose del mondo divengano. Tuttavia, la filosofia testimonia l’impossibilità del divenire. È, infatti, impossibile che un essente diventi altro da sé.
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